Quando Georges Simenon nel 1933, uno degli anni più fertili nella sterminata produzione dello scrittore belga, iniziò la stesura de Il grande male cercò nella sua mente l’ispirazione per quella che sarebbe dovuta essere la protagonista del romanzo. E gelida, autorevole, giudicante (fu l’incubo della madre), si impose la figura della nonna paterna (“Tutti i miei romanzi sono fantasmi della mia infanzia” ripeteva Simenon). Nella fantasia dello scrittore la donna diventò ben presto la signora Pointreu, una delle figure femminili più memorabili che Simenon ci ha regalato: spietata, austera, sprezzante e orgogliosa.
È lei a dominare indiscussa la scena del romanzo, pubblicato in Italia da Adelphi: vedova e madre di tre figlie, la famiglia è il suo campo di potere e pur di esercitare su di essa il totale controllo, non esita nelle prime pagine del libro a uccidere con gelida determinazione l’inutile genero, debole e incapace di farsi rispettare, gettandolo da una finestra del granaio durante un attacco di epilessia. E poco importa se la tranquilla vita di provincia nella società arcaica e rurale di Neuil non sarà più la stessa. Insensibile, imperturbabile, la signora in nero, la “castellana del paese” è preoccupata soltanto di salvare la rispettabilità borghese di facciata della famiglia.
A modo suo, anche questo romanzo, come tanti altri dello scrittore belga è un poliziesco. Ma stavolta non c’è il bonario Maigret a combattere il grande male. Simenon, così acuto nel penetrare la psicologia dei personaggi, si limita con crudele minuziosità a descriverci la signora Pointreu nella quotidianità, mentre cucina un coniglio o sceglie le verdure al mercato o rimbocca le coperte alle figlie. Il suo mondo è all’interno delle invalicabili mura domestiche: questa misurazione, questa ripetizione, questo odio, questa calma sinistra dove il grande male assume la sua dimensione più tragica e segreta e esercita indiscusso il suo potere sulle vittime e sui colpevoli, sui vivi e sui morti.
di Tiziano Rugi
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