Prosegue la rubrica “Sabato d’autore”, con recensioni di libri di grandi autori contemporanei e del passato. Tiziano Rugi ci parla di un romanzo di Georges Simenon, “La scala di ferro“, pubblicato in Italia dalla casa editrice Adelphi.
Ètienne e Louise vivono insieme da quindici anni. Da quando, cioè, Louise irretì e convinse il giovane commesso a diventare suo amante. Più precisamente: da quando il marito della donna aveva misteriosamente incominciato a dimagrire e in tre mesi, ridotto alla statura e al peso di un bambino di dieci anni, si era spento nel suo letto. Rinchiusi nella loro intimità segreta, ansiosi di rendere sempre più profonda la loro solitudine, la coppia ha ridotto l’universo al loro appartamento: di giorno quello della cartoleria di cui Louise è “la padrona” e di notte, quando si scatena un desiderio per molti versi inspiegabile e famelico, la camera da letto.
Adesso però è Ètienne a stare male: negli ultimi tempi è colto da un’improvvisa sensazione di vertigine, accompagnata da “un intenso e molesto calore alla gola”, da crampi al ventre e scompensi cardiaci. Ma a sentire i medici non è malato, se non di nervi, e l’unica cosa da fare è riposare. Relegato in camera, quando è solo, ha tutto il tempo per riflettere. E sospettare di Louise. Nel giro di poche pagine Simenon col suo stile asciutto, essenziale e implacabile ci fa precipitare dentro un soffocante universo di paranoia e angoscia.
Dall’appartamento collegato al negozio attraverso una scala di ferro Ètienne ascolta Louise, la spia, si immagina la sua vita quando lui non c’è, cosa si dice al telefono con l’amica Mariette (ma sarà veramente lei?). Finché si convince che abbia un amante e che lo stia avvelenando. Altre volte si vergogna di rimuginare quei vaghi sospetti, crede di essere malato di nervi, di impazzire: da troppo tempo sono un tutt’uno. Ha paura, fuggirebbe se solo ne avesse le forze, eppure si sente incatenato a lei. Perché anche se certe parole non sono mai state pronunciate, è colpevole non meno di Louise e se un giorno succederà qualcosa di terribile si rende conto di averlo meritato.
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Uomini soggiogati da figure femminili si trovano nella Camera azzura e nel Clan dei Mahé, come in Lettere al mio giudice o In caso di disgrazia. Ma La scala di ferro tra questi, forse, è il più personale di Georges Simenon. C’è molto della seconda moglie Denise nei lati oscuri di Louise: manipolatrice, falsa, incontrollabile, gli avrebbe rovinato la vita (prima di finire in clinica psichiatrica probabilmente abusò della figlia Marie-Jo, che una volta adulta si sarebbe tolta la vita). Come se per un attimo, in uno dei momenti più sereni nella vita dello scrittore (si era da poco trasferito con la famiglia a Lakeville, negli Stati Uniti), l’ombra del dubbio avesse sfiorato anche lui.
Purtroppo, però, così acuto nel penetrare la psicologia dei personaggi, Simenon fu cieco rispetto alle tragedie domestiche. Ecco perché il romanzo non è solo un avvincente noir. Solo dopo averlo terminato il lettore scopre che La scala di ferro parlava del segreto e della sua possibile convenienza, del matrimonio, della ferocia dei sentimenti e del tradimento, della responsabilità di chi ha finto di non sapere e dell’impossibilità di ignorare quello che mai avremmo voluto scoprire, del sospetto e dell’ossessione.
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